DOMENICO QUARANTA

The (art) world we actually have does not meet my standards

Media digitali e pratica del disegno

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John F. Simon

John F. Simon

Domenico Quaranta, “Media digitali e pratica del disegno”, first published in Titolo, N° 54, Autumn 2007, pp. 11 – 13

“Smart artists make the machine do the work!”1

Personale, intimo, istintivo. Da sempre, il disegno è la forma più diretta e immediata di comunicazione visiva, quella a cui gli artisti affidano le loro idee ancor prima che prendano forma. È la prima che impariamo, e quella di più lunga tradizione, tanto nella storia personale quanto in quella collettiva dell’uomo. Può richiedere strumenti molto evoluti, ma continua a esistere anche nella sua forma più elementare; e anche nella sua forma più elementare – lo scarabocchio tracciato distrattamente con la penna a sfera su un Post-it, continua a rivelare, del suo autore, più di quanto egli stesso non voglia dire.

Tutti questi, è ovvio, sono stereotipi. Proprio per la sua versatilità, il disegno è stato – e continua ad essere – molte cose: tecnica e improvvisazione, linea e chiaroscuro, segno e traccia, culmine della razionalità e registrazione dell’inconscio. “Il disegno è l’onestà dell’arte”, ha detto Ingres; “Il disegno è inganno”, ha detto Escher. Basterebbero queste due citazioni a dimostrare che stiamo semplificando troppo. D’altronde, è proprio a uno stereotipo che vogliamo fare riferimento; a un concetto diffuso di disegno, ben riassunto dalle parole di Matisse: “il disegno è, prima di tutto, uno strumento di espressione di sentimenti e sensazioni personali.” Uno stereotipo che l’utilizzo dei media digitali e della Rete sembrano sovvertire sotto vari punti di vista.

Macchine per disegnare

Ma che relazione c’è tra media digitali e pratica del disegno? E, soprattutto, che relazione ci può essere? La domanda è legittima, ma la risposta è più complessa di quanto ci si potrebbe aspettare. Non solo: le sue origini si collocano molto lontano, ai tempi in cui i computer non possedevano alcuna “interfaccia grafica”, e in cui i dati in uscita non venivano visualizzati sullo schermo, ma sulla lingua di carta che usciva da una stampante ad aghi. Nell’estate del 1962, presso i laboratori Bell di Murray Hill, New Jersey, il matematico americano A. Michael Noll produce i primi esempi di quella che allora viene chiamata Computer Art. In sostanza, Noll istruisce un computer affinché generi un’immagine; o, se vogliamo, trasforma una macchina da calcolo in un artista. Noll inserisce nella macchina degli algoritmi matematici, ossia delle istruzioni che, eseguite, generano delle immagini astratte. In questa scelta, si badi bene, non vi è alcuna ironia: Noll è seriamente convinto che, con il computer, l’uomo abbia creato “non uno strumento inanimato, ma un partner creativo e intellettuale attivo” (1967); e che il suo utilizzo “sollevi seri dubbi sull’importanza, per l’opera d’arte, del contesto in cui si forma l’artista e della sua emotività” (1966)2. Il pensiero di Noll risente certo del clima dell’epoca, dell’arte concettuale e delle “istruzioni” di Sol LeWitt; ma la radicalità della sfida che la Computer Art lancia all’idea romantica dell’artista rimane insuperata, non da ultimo proprio perché va a colpirla nella sua pratica più basilare e sensibile: il disegno, appunto.

Da questo momento, la programmazione di “macchine per disegnare” diventa uno dei filoni più floridi della New Media Art, dando vita a sua volta a numerose ramificazioni. Accanto a Noll, artisti come Manfred Mohr, Vera Molnar e Lillian Schwartz danno vita a immagini algoritmiche in cui la soggettività dell’artista è sostituita dall’introduzione di elementi casuali nelle varie iterazioni del software. Da questi precoci esperimenti discende la scena attuale dell’arte generativa, che sviluppa – con la ricchezza di articolazioni estetiche che il numero e la versatilità dei software attuali rende possibile – la partnership “intellettuale e creativa” tra artista e computer prospettata da Noll in una molteplicità di direzioni: dalla vitalità rigogliosa e barocca delle animazioni di Marius Watz all’estetica minimale degli sketch di Alessandro Capozzo, dall’eclettismo fantasioso delle macchine progettate da Fabio Franchino al rigore dei processi attivati da Casey Reas.

Un’altra linea di ricerca, anche questa molto precoce, ha dato vita a una serie di tentativi di totale automazione della pratica del disegno. Di grande interesse sono, negli anni Ottanta, le ricerche di Roman Verostko, che fa eseguire i suoi disegni algoritmici a una speciale stampante dotata di pennarelli e pennelli, con risultati che emulano da un lato la calligrafia giapponese, dall’altro l’Action Painting: la registrazione del gesto umano, carico di espressività e di potenzialità latenti, viene svilita dalla capacità di una macchina di emularla. Anche Verostko, tuttavia, è ben lontano da qualsiasi presunto “oltraggio” all’arte: la sua intenzione è piuttosto dimostrare che l’armonia del segno cela sempre, in ultima analisi, una logica matematica, tanto più potente quanto più è invisibile.

Ma il padre di tutte le “macchine per disegnare” è senza dubbio AARON, l’Artista Cibernetico. AARON è un progetto lanciato dall’artista inglese Harold Cohen nel 1973 presso la University of California San Diego, e consiste nella programmazione e nell’educazione di una intelligenza artificiale che disegna e dipinge. Partendo da forme elementari, AARON ha imparato , nel corso degli anni, le regole della prospettiva, dell’anatomia umana e dei rapporti cromatici; oggi può dirsi un artista maturo, con uno stile personale ben definito, ma ancora capace di sorprendere.

Immediatezza e ipermediazione

Tuttavia, non è necessario che sia la macchina a disegnare perché i media digitali mettano in discussione la concezione comune del disegno. Gli artisti si sono serviti spesso del computer – e dell’armamentario di hardware e software che mette a disposizione – per disegnare. Anche in questo caso, le radici scendono in profondità. Nei primi anni di Internet, per ovviare ai limiti di una comunicazione puramente testuale, si diffuse la pratica di realizzare immagini utilizzando i caratteri alfanumerici messi a disposizione dalla tastiera standard. Ne nacquero, da un lato, le ormai celebri emoticon, dall’altro una serie di immagini graficamente più complesse, che presero il nome di ASCII Art. L’ASCII Art è rimasto un fenomeno sostanzialmente popolare e underground, una sorta di corrispettivo informatico del graffitismo nel contesto urbano; ma eserciterà un fascino notevole sulle comunità hacker e su alcuni net.artisti, come Jodi.org (che inserisce l’immagine ASCII di una bomba nel codice sorgente di uno dei suoi primi lavori), Vuk Cosic (che dà vita, con Walter van der Cruijsen e Luka Frelih, all’ASCII Art Ensemble) e [epidemiC] (che, emulando una pratica diffusa fra gli hacker, darà a DoubleBlind (2003) – un programma che, se attivato, sviluppa un cortocircuito comunicativo spedendo a un hacker una mail di invito a nome di una importante istituzione artistica – l’aspetto di un calligramma).

Più ovvio è l’utilizzo degli strumenti per disegnare che il computer stesso mette a disposizione, come la penna ottica e i vari programmi di grafica: i quali, tuttavia, possono entrare a far parte di una processualità tutt’altro che ovvia. L’italiano Mauro Ceolin, ad esempio, sottrae alcune immagini al flusso dei media e le ridisegna a mano con l’aiuto di una penna ottica ottenendo un disegno vettoriale che colora con la palette limitata e “piatta” di Flash Macromedia. L’immagine che ne risulta può essere stampata o ridipinta a mano su tela, mantenendo tuttavia l’estetica peculiare conferitagli dai mezzi utilizzati.

Altri artisti, insoddisfatti o polemici nei confronti degli mezzi di elaborazione immagini più comuni, si creano da soli i propri strumenti, o riprogrammano quelli esistenti. Una delle caratteristiche più interessanti di queste “matite d’artista” è il loro carattere semi-automatico. L’immediatezza del disegno viene tradita a vantaggio di una presenza forte del medium. Nel 1999, l’artista e programmatore inglese Adrian Ward ha sviluppato Auto-Illustrator e Autoshop, versioni generative di due celeberrimi programmi commerciali, Photoshop e Illustrator, le cui funzioni tradizionali vengono sovvertite e automatizzate. Più costruttivo l’approccio dell’americano John F. Simon Jr., un artista del software da sempre innamorato del disegno. Nel 2005 Simon ha pubblicato, per Printed Matters, Inc., Mobility Agents, un programma di “disegno dinamico” accompagnato da un libricino con le sue riflessioni. Anziché imitare il disegno tradizionale, Mobility Agents tenta di implementare segni che solo il codice può produrre: segni che visualizzano la velocità, la direzione e il ritmo del gesto, strumenti che replicano automaticamente la linea tracciata arricchendola di ombre e di spessore. “I sistemi digitali hanno la capacità di amplificare i nostri più piccoli gesti in opere compiute”, scrive.

In seguito, Simon ha utilizzato liberamente il suo strumento, assieme ad altri più tradizionali, per realizzare Nonlinear Landscapes, una serie di disegni (esposti nel 2006 alla Sandra Gering Gallery di New York) emblematici della sua concezione del computer come strumento in grado di arricchire il suo gesto e potenziare la sua fantasia. Del resto, in un certo senso Simon si riappropria del gesto creativo già delegato alla macchina, perchè è stato lui a scrivere il codice che elabora l’immagine: “nel codice binario, la scrittura acquista l’enorme potere di fare ciò che dice”.3

Disegno collaborativo

Anche Andy Deck, attivista, artista e fondatore del pionieristico Artcontext (dal 1994), è interessato allo sviluppo di strumenti da disegno, ma da tutt’altra prospettiva. Progetti come Gliphiti, Open Studio, DraWarD, Collabirinth e il più recente Screening Circle (2006), tutti liberamente utilizzabili su artcontext.org, offrono una tavolozza molto semplificata, e fanno riferimento, da un punto di vista concettuale, al mondo delle icone dello schermo. Quello che a Deck interessa sviluppare non sono tanto i limiti estetici del disegno mediato dal computer, ma le potenzialità collaborative offerte dalla rete Internet. Tutti i lavori citati, prima ancora di essere degli strumenti di disegno open-source, sono degli immensi archivi che ci permettono di accedere ai contributi offerti dagli altri visitatori e, se vogliamo, di modificarli. Il contenuto non è preconfezionato: la sua qualità e il suo tenore dipende dalla partecipazione attiva dei visitatori. A partire da questa struttura di base, Deck organizza poi questi contenuti in forme sempre diverse. Collabirinth, ad esempio, ci permette di disegnare delle icone, che possiamo salvare sul nostro computer a nostro uso e consumo e allo stesso tempo condividere con il sistema, che le riposiziona in una sorta di labirinto 3D liberamente esplorabile; Screening Circle, invece, fa riferimento alla tradizione del “quilting circle”, consistente nella realizzazione collettiva di una coperta sulla base di un modulo quadrato: una pratica che funzionava come mezzo di aggregazione di comunità geograficamente disperse. Internet come le praterie americane di fine Ottocento: come allora, il valore non sta nel singolo contributo, ma nell’insieme e nel processo creativo che lo produce.

Un concetto simile è stato sviluppato dall’italiana Helga Franza con Drawingblog.net. Anche in questo caso, un semplice programma di disegno a mano libera diventa l’occasione per dare vita a una “mappa” in continua crescita di contributi, un immenso “cadavre esquis” che si sviluppa in ogni direzione. La base della struttura è fornita, ovviamente, dai disegni dell’artista, lei stessa disegnatrice impenitente che privilegia il segno sporco e incerto reso possibile dal mouse, di cui sa sfruttare come pochi le potenzialità espressive. Paradossalmente, con Helga Franza sembriamo tornare allo stereotipo da cui siamo partiti: il disegno come pratica personale, intima, idiosincratica, altamente espressiva; ma al contempo, Drawingblog.net rivela la volontà di condividere quel gesto, di renderlo pubblico e praticabile da tutti. A dimostrazione del fatto che tutto quanto abbiamo detto non mira a distruggere una tradizione, ma a renderla più ricca.

NOTE

1La frase citata è il sottotitolo di Net.Art Generator, un progetto dell’artista tedesca Cornelia Sollfrank che permette di automatizzare la creazione di immagini e di opere di net.art. Il progetto è reperibile all’indirizzo http://www.obn.org/generator/

2Entrambe le citazioni sono reperibili all’indirizzo http://noll.uscannenberg.org/ComputerArt.htm

3Entrambe le citazioni provengono da John F. Simon Jr., Mobility Agents. A computational sketchbook, Printed Matters – Whitney Museum, New York 2005.

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Written by Domenico Quaranta

September 9th, 2009 at 2:09 pm